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Gsxr750 | Church of Choppers




In fondo, come abbiamo già più volte ribadito, l’essenzialità e la funzionalità delle moto da corsa sono sempre state fonte d’ispirazione per i designer e lo saranno anche in futuro.

35 fa nasceva la suzuki GSX-R 750, pietra miliare tra le moderne moto sportive, Una moto destinata a entrare nella storia e che, come scrisse un giornalista sulla rivista americana Cycle World, avrebbe diviso l’epopea del motociclismo in due periodi: prima della GSX-R e dopo la GSX-R.



Etsuo Yokouchi e il suo staff di tecnici di fronte al risultato finale del loro progetto, ovvero la prima Suzuki GSX-R750 presentata al pubblico del Salone di Colonia nell’ottobre del 1984, si saranno senza dubbio complimentati a vicenda. Ne avevano ben donde: erano infatti al cospetto della prima vera ‘replica’ di una moto da corsa di grossa cilindrata omologata e pronta per essere prodotta in grande serie. Una pietra miliare nella produzione motociclistica mondiale. 


Prima di lei la Honda aveva stupito il mondo con la CB 750 Four, la Kawasaki azzerato la salivazione dei più sportivi prima con le tre cilindri due tempi e poi con la Z900, mentre la Yamaha aveva portato ai massimi livelli il due tempi su una sportiva stradale con la RD500 quattro cilindri. Nella storia della Suzuki, cui peraltro era riconosciuta un’immagine sportiva derivata dai successi nei GP e nell’Endurance, mancava ancora un modello altrettanto rivoluzionario: fu la GSX-R che colmò quella lacuna dando anche alla Casa di Hamamatsu una moto da ricordare per sempre, tanto da essere stata ininterrottamente in listino fino ad oggi ed aver brillantemente superato la soglia del milione di esemplari prodotti.



All’inizio degli anni ‘80 la Suzuki dominava la scena dei Gran Premi con la RG500 quattro cilindri due tempi,  Ma il destino del motore a due tempi, a torto o a ragione, era già segnato: il futuro per le moto stradali era a quattro tempi e alla Suzuki si erano adeguati fin dal  1976 col lancio della serie GS Le GS, pur evolvendosi negli anni e acquisendo la sigla GSX ma ’estetica aveva un’impostazione piuttosto classica, a parte il tentativo di evoluzione stilistica compiuto con la serie Katana. Il primo travaso del quattro tempi su una moto sportiva avvenne quando il team di Yokouchi creò una nuova 400 quattro cilindri che si poneva  come obiettivo principale la riduzione di peso rispetto alle concorrenti e che per questo utilizzava un telaio in alluminio derivato da quello delle moto ufficiali da GP siglate XR45 e dalle XR69 e XR41 1000 da Endurance. Il passo successivo fu quello di creare una ‘sette e mezzo’ con la stessa tipologia di telaio e un motore che raggiungesse la soglia dei 100 CV, ovvero il 16% in più del corrispondente motore GSX 750. Secondo quanto riportato sul bollettino tecnico interno della Suzuki Tech News il target di peso che fu assegnato alla nuova moto fu del 20% inferiore a quello delle dirette concorrenti: e visto che la media all’epoca era attrono ai 220 chili, la nuova GSX-R 750 doveva pesare circa 176 kg a secco, per un rapporto peso/potenza mai visto fino ad allora se non sui prototipi da corsa!


 I motori Suzuki a quattro tempi avevano raggiuto uno stadio di sviluppo molto avanzato grazie al contributo di Hideo ‘Pop’ Yoshimura, amico di Yokouchi e destinato a divenire un nome iconico e legato a filo diretto con le quattro tempi più sportive di Hamamatsu. La potenza raggiunta dal motore GSX750 preparato da Yoshimura impiegato negli USA per contrastare le V4 Honda RS750 e per correre la ‘8 Ore di Suzuka’ con la coppia Graeme Crosby-Len Willing era attorno ai 135 CV, ovvero il 60% oltre la potenza originale: un eccellente traguardo che però aveva generato numerosi problemi di fragilità meccanica. 


Per raggiungere l’obiettivo dei 100 CV con un’adeguata affidabilità, l’esperienza acquisita doveva evidentemente essere riversata in un motore completamente nuovo, che fornisse un’adeguata base anche per il futuro sviluppo di una versione potenziata da corsa. Il nuovo progetto fu affidato a Tansunobu Fuji che dovette partire da specifiche che prevedevano il mantenimento del layout della GSX, ovvero quattro cilindri in linea e distribuzione bialbero sedici valvole. Nulla di rivoluzionario, quindi, anche se si intuì fin dal principio che il raffreddamento ad aria sarebbe stato un limite al raggiungimento della potenza richiesta. Meglio quello a liquido, che avrebbe risolto il problema ma con un aggravio di peso che contrastava con lo spirito della nuova moto. L’idea per ottimizzare il raffreddamento pare sia stata ispirata dal sistema adottato sul motore Rolls-Royce Merlin costruito su licenza dalla Packard e montato sul velivolo americano da caccia impiegato nella Seconda guerra mondiale P-51 Mustang. Il poderoso V12 sovralimentato da 1400 CV era raffreddato in maniera consistente anche dai circa 50 litri d’olio a loro volta raffreddati in un apposito scambiatore. L’esperienza acquisita sul motore della Suzuki XN85 Turbo nel quale il cielo dei pistoni era raffreddato da un getto d’olio in pressione contribuì a convincere sulla validità del sistema. 


Le prime prove effettuate supportarono l’intuizione al punto da rendere incomprensibile ai tecnici giapponesi il perché fino ad allora nessun’altra Casa ci avesse pensato… Il sistema non richiedeva neppure la creazione delle classiche intercapedini per il passaggio del refrigerante, come con l’acqua; il gruppo termico fu semplicemente alettato per contribuire allo scambio termico con l’aria e dotato dei necessari passaggi per portare l’abbondante flusso a tutti gli organi meccanici. L’olio era contenuto in una coppa di capacità 5,5 litri e fatto circolare da due pompe, una delegata alla lubrificazione, l’altra al raffreddamento. La prima mandava una elevata portata di olio in pressione (60 litri/min) alle bronzine dell’albero motore e delle teste biella; l’altra, da 22 litri/min, mandava l’olio in due ingressi posti nella parte posteriore della testata dai quali partivano otto getti che lo indirizzavano nelle parti più calde. Da qui, attraverso due tubazioni esterne, l’olio caldo tornava nella coppa. Il circuito di lubrificazione comprendeva anche uno scambiatore di grandi dimensioni posto anteriormente e un filtro a cartuccia avvitato sulla parte frontale del basamento.  


Per identificare il sistema fu coniato l’acronimo SACS, che significava Suzuki Advanced Cooling System.  I vantaggi derivati  dalla bassa temperatura dei componenti raffreddati dall’olio consentirono ai progettisti di ridurre in modo tangibile dimensioni e peso dei componenti interni: al confronto con quelli del motore GSX750 il nuovo ‘R’ aveva pistoni (-11%), bielle (-25%), albero motore (-19%), testata (-22%) e blocco cilindri (-17%), più leggeri. Questo grazie anche a un più accurato dimensionamento delle parti, derivato da una svolta tecnica che passava dal perseguimento tipicamente giapponese dell’affidabilità ‘assoluta’ a favore di qualche ‘rischio calcolato’ anche per i dimensionamenti di taluni componenti delle moto di serie. Un lavoro che alla fine avrebbe portato a un peso totale del motore pari a 73 chili, ovvero il 10% circa in meno del GSX.


Novità anche nelle dimensioni caratteristiche, numeri che esprimono più di ogni altro la filosofia con cui è impostato un progetto. Ai 67 x 53 mm del GSX, il nuovo ‘R’ contrapponeva 70 x 48,7 mm, ovvero un alesaggio maggiore per avere più spazio disponibile per le valvole e una corsa inferiore sintomatica di una capacità di ‘girare alto’ contenendo la velocità lineare del pistone. Le valvole passarono da 25 a 26 mm di diametro all’aspirazione e da 21 a 24 mm per lo scarico, con un angolo compreso di 21°. 


La potenza, dichiarata all’albero in 104,5 CV a 10.500 giri/min (con linea rossa a 11.000) fu ottenuta con un rapporto di compressione di 9,8:1 e una batteria di quattro carburatori Mikuni VM29SS a valvola piatta collegati a un airbox di volume pari a 8 litri posto sotto il serbatoio e denominato Direct Air Intake System (DAIS). Il cambio a sei rapporti era collegato all’albero motore da una frizione multidisco in bagno d’olio col comando idraulico (una novità per l’epoca) e da una trasmissione primaria a ingranaggi (rapporto 75/43), il cui conduttore era ricavato direttamente sull’albero motore. Quest’ultimo azionava anche l’alternatore (di potenza pari a 360W) posizionato dietro i cilindri, sopra il cambio, per contenere l’ingombro trasversale del motore. Una soluzione che consentì di pubblicizzare la GSX-R come una moto capace di poter ‘piegare’ fino a un angolo di 55°, valore assolutamente eccezionale per una moto stradale degli anni ‘80.


Con la GSX-R i progettisti della Suzuki hanno accoppiato un eccellente motore a un altrettanto eccellente parte ciclistica, un mix che fino ad allora era mancato alle Case giapponesi, anche nei prodotti di alta gamma, e che aveva fatto la fortuna dei telaisti europei che con la loro esperienza erano riusciti ad assecondare al meglio l’esuberanza dei motore ‘made in Japan’. Un compito non semplice, poiché le specifiche iniziali del progetto imponevano una riduzione di peso in ogni area, e dunque anche nella parte ciclistica. Il tecnico incaricato di sviluppare il telaio fu Takayoshi Suzuki che col suo team perseguì l’obiettivo minimizzando il numero di componenti (e quindi delle giunzioni) e utilizzando l’alluminio al posto dell’acciaio. Al termine dell’opera la bilancia denunciò 8,1 kg per il telaio, quasi la metà del precedente, e solo 2,6 kg per un forcellone con due imponenti bracci a sezione rettangolare dotato di sistema progressivo denominato New Full Floater (per differenziarlo dal primitivo sistema applicato sulle moto da fuoristrada) col monoammortizzatore posto pressoché verticale dietro il cambio e regolabile oltre che nel precarico della molla anche nel freno idraulico tramite un pomello posto superiormente. 


La forcella montava steli di diametro 41 mm che insieme alla piastra di unione applicata alla sommità dei foderi davano all’avantreno una sensazione di solidità fino ad allora sconosciuta sulle stradali Suzuki: la GSX750 montava infatti esili steli da 37 mm, solo di poco più  grossi dei 35 mm delle Ceriani anni ‘60… E anche la coeva Yamaha FZ750, all’epoca considerata la più diretta concorrente della GSX-R, aveva steli solo da 39 mm. Sull’estremità inferiore dei foderi c’erano poi due cilindretti dotati di una manopola con 4 step di regolazione: sono caratteristici della forcella Kayaba PDF (Positive Dumping Fork) e variano la resistenza all’affondamento in frenata, ovvero il dispositivo che gli inglesi chiamano anti-dive. Era regolabile anche il precarico molla, agendo sulle viti poste sulla sommità degli steli. Sulla parte posteriore del fodero c’erano due pinze freno Tokiko, ciascuna con due coppie di pistoncini. Anche per loro fu coniato l’appropriato acronimo DOP, ovvero Dual Opposed Piston. 


La pinza posteriore aveva invece una sola coppia di pistoncini e frenava un disco da 220 mm. In totale la frenata era dunque affidata a dieci pistoncini idraulici, da qui l’immancabile denominazione del sistema, definito Decapiston. La geometria del telaio fu adattata all’utilizzo di ruote da 18”, una soluzione in controtendenza  alla moda di quel periodo che voleva invece l’anteriore da 16” e la posteriore da 18” (come su Yamaha FZ750 e Honda VF750F). Un altro interessante dettaglio che nessuna stradale dell’epoca poteva esibire era l’adozione di perni ruota in acciaio speciale alleggeriti, come sulle moto da corsa. L’angolo al cannotto era di 26° con un’avancorsa di 107 mm; valori conservativi se rapportati ai decisamente più agili 25,5° con ruota da 16” della FZ, la cui maggiore maneggevolezza era anche enfatizzata dal manubrio più largo. L’interasse era contenuto in 1.405 mm, inferiore sia a quello della FZ (1.485) sia a quello della VF750F (1.490).


Per gli appassionati delle moto sportive, la GSX-R rappresentava all’epoca il massimo appagamento. La nuova Suzuki, come abbiamo accennato, accorciava drasticamente la distanza fino ad allora intercorsa tra le moto di serie giapponesi e le ‘special’ europee motorizzate coi poderosi motori nipponici. Parlare di stile sulla GSX-R è una parola grossa: essa doveva ricordare da vicino la XR41 da Endurance e dunque i canoni estetici non lasciavano molto spazio all’estro dello stilista. 


Tra gli elementi caratteristici c’è il serbatoio della benzina triangolare appoggiato ai tubi del telaio, con una vistosa  camera da cui parte il tubo di ventilazione e il tappo di tipo aeronautico. Le forme della carenatura somigliavano a quella della XR41 con la ridotta sezione frontale e l’ampia possibilità di ‘piega’. Anche la scocca posteriore, pur con la sella biposto e i fianchi abbassati per mascherate un po’ i componenti, ricordava da vicino la moto da endurance, così come i doppi fari anteriori, in Italia purtroppo sostituiti da un unico gruppo ottico rettangolare per  volere del nostro Codice. 


Tocco finale il cruscotto costituito da un supporto in schiuma espansa per isolare gli strumenti dalle vibrazioni come si era allora abituati a vedere solo sulle moto da corsa. In evidenza, al centro, il contagiri (la cui scala parte dai 3.000 giri) e a sinistra il tachimetro, entrambi con il quadrante a sfondo bianco. Due le colorazioni disponibili: quella bianca con inserti in diverse tonalità di blu e quella in cui domina il rosso, con inserti bianchi, grigi e neri. La prima fu di gran lunga più diffusa della seconda. All’epoca la GSX-R contava circa 10 milioni di lire.



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