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“Al Tourist Trophy se cadi, muori. Eppure il suo fascino è irresistibile.”

 

Ci sono poche cose certe a questo mondo, paragonabili alle tasse, sono i morti al tourist trophy, e altrettanto inesorabili e categorici ci sono i giudizi di gente che critica la corsa motociclistica al mondo.

Dopo due anni di stop a causa della pandemia torna la corsa più affascinante del mondo delle 2 ruote,  il Tourist Trophy, la gara su strada nata nel 1907 e che da allora ha affascinato e fatto discutere generazioni di appassionati. 
Giudizi inutili, si di chi è contro o chi di chi è pro, perchè entrambi non hanno mai corso questa gara o perchè non hanno i coraggio o pechè non ne avranno mai la possibilità.


Il titolo di questo articolo sono le parole di apertura di Giacomo Agostini, che al TT ci ha corso e ci ha vinto (e lo ha profondamente osteggiato), sia la più lucida definizione di questa gara, così lontana dalle competizioni motociclistiche attuali, eppure così simile, per significato, a quella cosa che il TT sembra avere in odio più di tutto: la vita.

Ma è una gara che regala un vittoria a ognuno dei piloti che prova a sfidare in circuito dell Isola di Man o sfida la propria paura 

Chi corre il TT, infatti, vince anche se non arriva primo, vince anche se non arriva, in realtà. Il solo motivo di essere lì e giocarsi tutto per qualcosa di intangibile come la passione, è già una vittoria. Non ci sono milioni di euro in ballo, non c’è il sogno di una vita agiata alla fine del Gran Premio. Chi corre qui, se vince, si porta a casa  la coppa con l’effigie del Mercurio Alato, se perde, invece, coltiverà la speranza di poter correre ancora il prossimo anno. Tutti però, vinti e vincitori, ottengono qualcosa di molto più importante, ossia l’amore della gente, l’affetto incondizionato di chi sta guardando un eroe.

Quindi visto che noi siamo dei meri spettatori per capire un pò questa follia a due ruote ci dovremmo rifare alla parola di chi ha avuto il coraggio di sfidare quei 60 km di curve e muretti , come Guy Martin, per capire cosa spinge questi uomini a sfidare la morte 


"Il bello di correre sull'Isola di Man è che ti giochi la pelle. Ci nasci, così. Se ci vietassero di farlo, non si risolverebbe niente: gente come noi, non si metterebbe a collezionare francobolli". queste le parole di Guy Martin 

Gli fa eco John McGuinness, inglese 47enne di Morecambe, 98 TT corsi, 23 vinti: "James Hunt è morto a quarantacinque anni per attacco di cuore, Barry Sheene a cinquantadue per cancro. Se qualcuno mi dicesse adesso... 'dai, John, scegli il tuo destino: preferisci vivere quarantasette anni alla grande o sessanta di merda?'. Bè, correre il TT è il mio modo per dire che prediligo spararmi 48 anni alla grande".


"Il rischio fa parte del gioco, se fosse possibile estirparlo, toglieresti il bello della faccenda - ammette Peter Hickman, il rider più vincente del TT 2019 con tre centri in Superbike, Supersport e Superstock, oltre che detentore dallo scorso anno del record assoluto -. Le corse su strada sono questo. O le accetti o le eviti. Libera facoltà di scegliere. Ma con un dovere minimo: rispettare chi le fa".

Con le parole di questi piloti, mai come in questi giorni valgono oro e con questo anche io mi schiero nella diatriba tra chi la vorrebbe eliminare e chi invece la sostiene, che ogni anno si presenta puntuale come le tasse.... cioè in modo inutile e fastidiosa. 

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